I rituali del sangue in Sardegna
I rimedi per quelli dalle labbra bianche
[...] Ad Arasolè si mangiava pane, soprattutto pane. Poi, secondo le stagioni, altre cose: d’inverno, pane e lardo; di primavera, pane e ricotta; d’estate, pane e pomodori, che venivano chiamati “le aragoste dei poveri”; d’autunno, pane e fichidindia. Il povero campava bene solo d’autunno, perciò chiamato “autunno ingrassapovero”. [...]
Così Francesco Masala, nel suo unico romanzo "Quelli dalle labbra bianche", descrivendo drammaticamente un misero paese della Sardegna, rappresenta i poveri eternamente affamati, appunto "quelli dalle labbra bianche", tormentati dalla cupidigia di quel cibo riservato ai ricchi, le cui labbra erano invece rosse, così come le labbra porporine delle fanciulle celebrate appassionatamente in tante ballate popolari.
Questo desiderio struggente di carne e sangue si deve all'altissimo potere nutritivo del sangue e alle sue proprietà ricostituenti. Prima che la malaria venisse debellata, insieme alla piaga della fame, l'anemia era infatti diffusissima e l'alimentazione a base di carne il suo principale rimedio. Era infatti considerato un toccasana consumare il fegato ancora palpitante degli animali appena macellati scottandolo appena sulla brace.
In Sardegna si continua tutt'oggi a preferire la carne freschissima, che viene consumata prima ancora che sia iniziato il processo di frollatura che, rilassando nervi e tendini, ammorbidisce i muscoli e accresce il pregio del taglio.
Prima che la civiltà dei consumi travolgesse le consuetudini, all'atto della macellazione si badava a non perdere neppure una stilla di sangue. Il liquido che sgorgava dalla ferita mortale veniva raccolto in un recipiente e subito rimestato affinché non si coagulasse.
La richiesta del sangue era resa inoltre più preziosa dalla richiesta da parte dell'industria artigiana del legno. Le cassapanche di castagno della Barbagia e del Mandrolisai erano infatti verniciate col sangue di capra che conferiva quella caratteristica tonalità di nero cerato, nutrendo e rendendo elastico il legno, garantendo così la durata del mobile.
Veniva poi utilizzato per la confezione di pietanze rustiche che, se all'inizio erano imposte da una situazione di povertà, in un tempo successivo costituivano piatti prelibati.
Il più celebre è senz'altro il sanguinaccio di maiale, un tempo prodotto in tutte le contrade dell'isola, con un impasto che univa al sangue la sapa e l'uva passa, le noci e il miele, l'acquavite e le spezie. Il composto veniva fatto cucinare a fuoco lento per delle ore fino a quando non raggiungeva una consistenza cremosa.
Quindi veniva insaccato in un budello di maiale e fatto lessare per una ventina di minuti al fine di conservarlo per un certo tempo. Veniva poi scaldato sulla graticola e servito come dolce invernale.
In ambienti più rurali si preferiva il sanguinaccio piccante detto "sanguini de porcu de monti" o "sanguini de su porcargiu". Si trattava di una pietanza insaccata insaporita con sale e pepe, condita con il timo, addensata con mollica di pane e fatta arrostire alla fiamma.
L'autentica specialità delle pietanze di sangue è però lo stomaco di ovino ripieno, detto in Ogliastra e Barbagia "brenti de sangui". Lavato accuratamente lo stomaco di un agnellone, a parte, in un tegame si fanno soffriggere nello strutto cipolle tritate, favette fresche, pangrattato, sale, pepe e mentuccia.
Unito il sangue si aggiungono tre formaggi: pecorino stagionato grattugiato, formaggio di media stagionatura e del "casu axedu" una sorta di yoghurt consistente e saporito, leggermente acidulo.
Il tutto viene versato nello stomaco dell'agnello che viene chiuso con uno stecco di erica detto "su sartìgu" e fatto bollire per circa un'ora. Una volta raffreddato viene affettato e servito con apprezzamento degli estimatori.