In Sardegna è possibile riscontrare l’esistenza di forme d’arte di culto prenuragico, il cui insediamento sembra essere agevolato dal clima mite e dalla tempra culturale dei nostri avi. Ne costituisce un esemplare dimostrazione il nucleo megalitico di Biru’e Concas, sito in territorio di Sorgono, a Nuoro, nella regione storica del Mandrolisai.
Il sito si trova nella località Coa ‘e sa Mandara, una collina di circa seicento metri sopra il livello del mare delimitata dal riu Mannu, che si caratterizza per essere una zona fertile, ricca d’acqua sorgiva.
In origine un ambiente naturale incline all’allevamento e all’agricoltura, che si dimostra da sempre un nodo focale per le vie di comunicazione, in quanto collocato lungo i collegamenti naturali che uniscono il Gennargentu al Campidano e Sarcidano.
Tra i settemila nuraghi presenti in Sardegna, ce n’è uno in particolare, nella zona di Abbasanta, che presenta le caratteristiche di un labirinto e di un intreccio di corridoi e stanze e che offre ai visitatori la possibilità di addentrarsi nell’oscurità di un enorme e complesso ambiente.
Si tratta del Nuraghe Losa e rappresenta una delle strutture più imponenti dell’Età del Bronzo, tra il XIV e il XIII secolo a.C.
I pozzi sacri sardi sono luoghi di culto che risalgono al periodo nuragico. Ubicati soprattutto nell’entroterra, come i nuraghi, sono caratterizzati da una pregevole maestria nella realizzazione.
La loro costruzione s’ispira proprio ai nuraghi e la loro funzione è prevalentemente religiosa.
Inutile sottolineare la rilevanza fondamentale che ebbe l’acqua per il popolo nuragico.
Essa fu un elemento talmente importante per la vita tanto da essere venerata ed il pozzo sacro adempie pienamente anche a questa funzione.
Il miglior esempio in Sardegna di pozzo sacro è quello di Santa Cristina, a Paulilatino (OR), risalente all’XI sec. a.C.
In ottica religiosa, è evidente il fortissimo simbolismo che contraddistinse questo tipo di costruzione e l’interpretazione più corretta che oggi si può dare, è quella che vede il pozzo rappresentare metaforicamente l’utero della “madre terra”, col suo liquido amniotico riprodottoproprio dall’acqua.
La scalinata ha un duplice funzione. Raffigura, infatti, il passaggio dal buio alla luce attraverso la nascita e dalla luce al buio con lamorte.
Ma c’è molto di più.
Il pozzo sacro di Santa Cristina è una meraviglia architettonica unica, un santuario che per proporzioni, perfezione tecnica delle murature, accuratezza del progetto, precisione geometriche e qualità formali e ottiche, non ha eguali in tutto il bacino del Mediterraneo.
A Dorgali, in prossimità del celeberrimo complesso archeologico nuragico di Serra Orrios svetta, tra la flora mediterranea, l’obelisco d’età nuragica meglio conservato nel corso della storia plurimillenaria sarda, la tomba dei giganti di S’Ena 'e Thomes. La magnifica posizione sovrastante la fertile valle del Rio Isalle, mette in risalto la maestosità di una delle più suggestive e intriganti strutture sepolcrali dell’età del Bronzo Medio Antico(1800-1600 a.C.).
La tomba dei giganti di S’Ena 'e Thomes rientra, infatti, tra le più antiche di quelle esistenti nel territorio insulare. Si caratterizza per la presenza di una stele centrale, ossia un unico monolite granitico di oltre tre metri e mezzo, ben rifinito nei bordi e con in basso un piccolo portale d’accesso.
La stele ovale di circa sette tonnellate chiude la camera sepolcrale a lastroni, la quale pur datata permane nella sua originaria formazione strutturale: la copertura “a piattabanda”, formata cioè da lastroni di pietra appoggiati orizzontalmente sulle pareti laterali.
Una ziqqurat in Sardegna. Com’è possibile che un tipico monumento mesopotamico sia potuto arrivare a centinaia di chilometri di distanza dal suo luogo d’origine e perché è arrivato proprio in Sardegna?
Questa è una delle tante domande che non hanno ancora avuto una risposta e che probabilmente non ce l’avranno mai, perché i misteri che circondano l’altare sacro di Monte d’Accoddi, tra Sassari e Porto Torres, sono davvero inestricabili.
Un luogo e un monumento figli di un mistero che troviamo perfino nel nome.
E partiamo proprio da questo. Il nome Monte d’Accoddi risulta essere, al pari di questa prodigiosa collinetta, anch’esso piuttosto misterioso.
Se si può capire la dicitura di monte, (in Sardegna si tende a chiamare monte anche piccole alture e colline), più complessa è l’interpretazione del termine Accoddi, che potrebbe significare “luogo di raccolta”. Tuttavia il nome più antico di cui si ha testimonianza nei testi scritti è “Monte de Code”, che significava “Monte, collina delle pietre”, forse per via delle pietre affioranti sparse alla rinfusa, prima che iniziassero le vere e proprie campagne di scavi, negli anni ’50, sotto la guida di Ercole Contu.
Kodi e Kodina, nell’antichissimo sardo significano rispettivamente monte e pietra. Quindi ci troviamo davanti ad una vera e propria “montagna di pietra” ma anche ad un punto di raccolta.
Inizialmente il monumento era caratterizzato solo da una rampa alla cui sommità si trovava un edificio che rappresentava il tempio vero e proprio, intonacato di ocra rossa; oggi di questo edificio resta solo il pavimento. Distrutto probabilmente da un incendio, successivamente venne innalzata la piramide con una seconda terrazza e ricostruito completamente il tempio.
Il termine ziqqurat significa letteralmente “tempio del sole”. Il santuario di Monte d’Accoddi però fu dedicato a due divinità lunari, il dio Narma e la dea Ningal.
Osservare un po’ a distanza la grande terrazza tronco-piramidale (36 x 29 metri, e un’altezza di 5,40 metri), con la sua lunga rampa d'accesso trapezoidale, incute un certo fascino. Si percorre la salita lentamente e si osserva il mondo circostante da lassù. Un po’ più lontani da terra. Un po’ più vicini alle stelle. Chiara interpretazione mesopotamica che voleva che cielo e terra fossero uniti.
Le tombe dei giganti, straordinari monumenti funerari collettivi, sono disseminateun po’ in tutta la Sardegna e rappresentano una tipologia di tomba sepolcrale di grandissimo fascino e mistero.
Oggi appaiono un po’ in disarmo, troppo solitarie e disadorne, probabilmente decadenti, ma mai come in questo caso si può dire che l’apparenza inganni, perché questi grandi templi, apparentemente in rovina, nonostante il loro manifesto stato dimesso, conservano incredibilipeculiarità energetiche.
Il loro nome prende spunto dalle notevoli dimensioni della stele: il masso centrale con la piccola porta d’ingresso. A oggi in Sardegna se ne contano più di trecento.
La loro costruzione tende a simboleggiare la protome taurina, in omaggio a una delle divinità più venerate dei popoli nuragici e pre-nuragici sardi, ovvero il dio toro.
Luoghi sacri senza eguali, erano il punto d’incontro ideale dove i vivi incrociavano i loro antenati lì sepolti. I morti deposti all’interno del monumento funerario non erano semplicemente morti, ma dei privilegiati, destinati a passar a miglior vita di lì a poco e quindi meritevoli di rispetto; avevano già spiccato il metaforico volo verso l’ignoto, verso una vita ultraterrena che i vivi potevano solo cercare di immaginare.
Nel territorio del piccolo paese di Pauli Arbarei, nella sub-regione storica della Marmilla, in aperta campagna, dalla loro sommità, le modeste alture spoglie circostanti, offrono un bellissimo colpo d’occhio. In una di queste sorge il nuraghe Bruncu Mannu, in uno dei punti più alti del territorio di Pauli Arbarei. Si tratta di un nuraghe coperto che non ha beneficiato, purtroppo, di nessuna campagna di scavi.
Da quest’altura si domina una grossa vastità di territorio. Altri nuraghi diroccati e perlopiù interrati sono visibili nelle collinette adiacenti, in vari punti strategici.
A circa un centinaio di metri da questo nuraghe, tre anni fa, iniziò una campagna di scavi dove si rinvennero una serie di tombe e una struttura piuttosto particolare; non era né un nuraghe, né una torre. Tra le varie ipotesi degli archeologi le più accreditate sono quelle che identificarono la struttura con un tempio sacro oppure con una tomba importante.
Lì accanto infatti ci sono tante fosse e altrettanti avvallamenti del terreno.
Tutte tombe che sono state depredate dai tombaroli, alla ricerca del corredo funebre degli uomini sepolti.
Ora, dello scavo, rimane una rete metallica che delimita un approssimato confine e mucchi di pietre disseminati qua e là. Le erbacce e la vegetazione sembrano nuovamente avere la meglio su quello che è stato rinvenuto.
Nella valle circostante qualcuno sostiene di aver scoperto, tempo addietro, qualcosa di straordinario. Un vero e proprio cimitero di guerrieri. Accanto agli scheletri erano presenti lance, scudi, monete ed elmi. Di tutto questo oggi sono rimaste solo le fosse che il tempo e gli agenti atmosferici stanno lentamente ricoprendo. Semplici voci o reali ritrovamenti?
Tra i vari aneddoti che raccontano della nascita dell’isola di Sardegna, vi è quello che narra di una grande isola, Tirrenide. Un’isola bellissima, dalla natura rigogliosa, abitata da uomini ed animali dal bellissimo aspetto. Un giorno l’ira di Dio si scagliò improvvisamente sull’isola, che fu imperversata da onde altissime causate dalla furia di un terremoto.
Le acque invasero gran parte delle pianure fino alle colline. Tuttavia Dio provò pentimento nel vedere tanta bellezza andare dispersa e con un piede trattenne la piccola porzione di terra che ancora non era stata sommersa dai flutti.
Così nacque Ichnusa ( impronta di piede in greco antico), dalle vestigia di un continente che millenni fa fu funestato da un cataclisma che fece inabissare gran parte della sua superficie.
Questo racconto si sposa facilmente con la Storia di Atlantide raccontata da Platone (vissuto tra il 427 ed il 347 a. C.). Una terra bellissima situata al di fuori delle Colonne D’Ercole che fu inghiottita dal mare circa novemila anni prima dei tempi in cui egli parlava, a causa dell’ira di Zeus, sdegnato dal comportamento ignobile e privo di morale che gli abitanti, dapprima morigerati, avevano assunto. L’isola scomparve inghiottita dagli abissi marini a causa di un cataclisma.
Platone ha quindi sostenuto che è esistita un’isola dalle grandi dimensioni, molto potente politicamente e militarmente, ricca e prospera.
Tale luogo era situato oltre le Colonne d’Ercole e comandava sui popoli dell’Africa del nord, della Libia, e su quelli al di là e all’interno delle Colonne d’Ercole. Sarebbe certo pretenzioso dotare di scientificità ciò che è frutto d’ipotesi. Da una supposizione può però nascere un bel racconto fantasioso come può, allo stesso modo, avere origine una tesi scientifica. Sono le diverse e opposte sorti che possono far scaturire una buona idea.
La scoperta della storia evolutiva del popolo sardo nell’isola è sempre stata perseguita dagli studiosi, fin dagli albori dei tempi, per la comprensione e conoscenza delle proprie origini. Il ritrovamento dei “Cocci di Orani”, nel 1994, ne dà prova certa.
I reperti, sulla cui natura nuragica non si sostengono dubbi, meritano una particolare attenzione per le inscrizioni riportate. Riguardo ad una loro possibile contraffazione, si è dibattuto sin dall’anno del rinvenimento, periodo in cui vennero presentati all’emerito archeologo, il Professor Lilliu, in sede di conferenza sulla religiosità protosarda tenuta nella città oranese.
La contraffazione dei reperti, sostenuta da illustri studiosi, è di netto contrastata da un parallelo filone culturale di altrettanti meritevoli studiosi che vedono, nei quattro Cocci di Orani, la palese dimostrazione di una primaria forma di segni alfabetici nuragici. Infatti, uno di essi presenta caratteri di tipologia fenicia arcaica, addirittura propri della stele di Nora.