Al di là delle colline dell'isola Vagante giacciono scalfite nella roccia o nel granito, le case fatate, che aprono le porte dell'incantevole mondo di piccole creature dalla luce diffusa, stanti in bilico tra sogno e realtà e che comunemente nell'immaginario sardo sono chiamate Janas.
Vengono da un mondo lontano, in cui la primavera vige costante poiché l'isola natia delle misteriose e fantastiche fatine è in perpetuo movimento, alla ricerca dell'auspicata stagione che rende grazia alla loro maestosa luminosità.
La ciclica esistenza primaverile volutamente realizzata da coloro che di luce vivono, ha comportato nel corso dei secoli infiniti, lo spostamento del popolo fatato tale da meritarsi l'appellativo delle genti dell'Isola Vacante. Ma, la beata stabilità del vivere magico, seppur in un movimento ultraterreno, ben presto finì a causa dell'eruzione dell'unico vulcano insulare sospeso tra i flutti, ai piedi del quale le Fate con le loro caratteristiche unghie, avevano intagliato le loro magiche case nella roccia.
In Sardegna sono tanti i racconti di paesi scomparsi per via delle più disparate ragioni, soprattutto per epidemie o alluvioni; ma c’è un paese che ha una storia molto particolare: Mannorri. A decretare la scomparsa di questo piccolo borgo sulla strada che collega Urzulei e Talana, in Ogliastra, è stata addirittura una terribile faida alla fine del Settecento.
La vicenda di Mannorri, come tutte le leggende che si rispettino, è avvolta nel mistero.
Non esistono documenti storici che attestino che la scomparsa del paese sia avvenuta esclusivamente a causa di una cruenta disamistade, ma emergono svariati fattori che uniti tra di loro portano a questa incredibile conclusione. Tra questi ci sono l’esigua consistenza demografica e le mire espansionistiche dei paesi vicini ma anche un’epidemia di peste tra il 1755 e il 1780, fino ad arrivare appunto alla terribile faida che decretò la fine del centro abitato.
Lungo il declivio del colle di Buoncammino, nella valletta naturale di Palabanda, di fronte alla chiesa di Sant'Antonio da Padova dei Cappuccini, si staglia la struttura composta da larghe gradinate intagliate nella roccia che attornia lo spazio ellittico centrale, l'arena.
Nasce come luogo di esecuzioni capitali, di lotta tra uomini e animali selvatici e tra gladiatori. Ciò che si presenta come un prestigioso bene archeologico da preservare, cela un'antica leggenda inerente a un'ambigua cavità di profondità verticale che s'innesta nel terreno quasi passando inosservata, ma presente e significativa.
Gli Antichi furono, gli Antichi sono e gli Antichi saranno. Discesero da stelle oscure, prima che l'uomo nascesse, invisibili e tremendi, sulla Terra primordiale. Sotto gli oceani attesero per lunghe epoche, fino a quando i mari eruttarono la terraferma, e la loro stirpe brulicò sulla Terra.
Eressero città ciclopiche di torri titaniche e monoliti svettanti fino al cielo, e, in luoghi elevati, i templi di coloro che la natura non conosce e che gli Dei hanno maledetto. E tutto il creato s'inchinava al loro potere.
Quindi i Sovrani Primigeni aprirono gli occhi e videro gli abomini di coloro che devastavano la Terra. Nella loro collera levarono la mano contro gli Antichi, fermandone le iniquità e scacciandoli dalla Terra nell'abisso.
Infine l'Arabo pazzo, Abdul Alhazred, pazzo perché lui gli Antichi li aveva invocati e visti, racconta che i Sovrani Primigeni posero il loro sigillo sulla porta dell'abisso, tenendo così a bada, almeno temporaneamente il potere degli Antichi.
Circondato da una pittoresca vegetazione tropicale che si fonde in un'alternanza di colori e suoni, accordati dal fragoroso fruscio dell'acqua delle cascate, sorge, nel parco di Laconi, in tutta la sua maestosità storica, il castello dei Marchesi Aymerich, signori feudatari che risedettero qui fino alla metà dell'800.
Il giardino, voluto da Ignazio Aymerich Ripoll, è definito museo naturale, ma il castello, è sede dell'antica fortezza difensiva del Regno di Arborea, il cui piano superiore presenta una molteplicità di finestre ad arco inflesso di stile gotico-catalano.
È nelle mura del maniero che si confessa la leggenda. Una giovane fanciulla, amante della propria libertà, arrivata all'età di marito, rifiutò la volontà paterna di unirsi a un uomo da lei sconosciuto e non voluto.
Alla ribellione della fanciulla, il padre, incurante del legame sanguineo, la fece murare viva in un pilastro perimetrale della roccaforte.
Si narra che dal giorno della morte lo spirito della malcapitata passeggi nei dintorni, e, cercando una rivendicazione per il sopruso subito, spaventi i visitatori.
Chissà se in un suo momento di apparente calma, non si affacci in una delle arcate aperture e si gusti la vista solenne, resa tale dai colori della natura e dagli effetti di luce dell'acqua del Parco di Laconi, storico paese di Sant'Ignazio.
Sulle montagne di Calamixi, nella località di Domus de Maria, si può ammirare la meraviglia di una gola scavata negli anni da un torrente, la gola di Calamixi, un’incisione tale da presentare delle pareti molto ripide.
Tale difficoltà nell’attraversarla comporta la scelta di camminare a piedi, utilizzando scarpe e indumenti adatti all’occasione. La zona è caratterizzata dalla presenza di un bosco di lecci e da un divertente gioco di schizzi d’acqua da parte del torrente, che crea così delle cascate.
Il passaggio successivo richiede l’impiego di strumenti propri degli scalatori. Perciò soltanto i più esperti possono proseguire e godersi lo spettacolo, perché non è molto semplice da osservare ricorrendo a una semplice camminata.
In quest’area, si narra di un’antica leggenda legata alla vita molto particolare di una signora di una certa età.
Grande come una rondine, una pecora o persino un bue, ma con due ali, innumerevoli occhi e la possibilità di muoversi in sciami – o greggi - si potrebbe dire: la paura a volte ha dimensioni spropositate, specie se legata al disfacimento della propria terra, e alla distruzione in massa di vite umane.
Nel centro del Campidano, ai piedi della vallata di Castangias sorge Villacidro, il "paese d'ombre" di Giuseppe Dessì, il paese delle antiche superstizioni che, secondo il letterato e antropologo Francesco Alziator, si fa ricordare come la Benevento sarda.
Innumerevoli le storie relative ai rituali insoliti, propulsori di una sorta di inquietudine che aleggia sul centro abitato e soprattutto sulla zona boschiva circostante, quasi come simbolo della memoria di un paese dai tanti nomi derivanti dalle leggende tramandate sin dalle origini. Tra questi, l'appellativo di "paese degli impiccati" suggella il mito maledetto di Villacidro.
Alla base della leggenda, una maledizione, che ricorda le vecchie storie raccontate durante le notti insonni passate nei ritrovi in piazza o in casa di un amico. Unico elemento di disturbo: la paura. Ascoltare di malefici o di maledizioni, suggestiona la mente fino a chiuderla alla realtà impedendole di distinguere il vero dal mondo immaginario, argomento che spopola da sempre in Sardegna e a maggior ragione nelle piccole comunità paesane.
A dispetto delle numerose leggende, sono pochissime le notizie di carattere storico che si hanno a riguardo del Castello di Medusa. In questo viaggio scopriremo tutti gli aspetti reali e fantastici di questo straordinario luogo solitario.
Partiamo dalla storia.
In mezzo alla gola delle montagne di Laconi e di Samugheo, a mezza strada tra Samugheo e Asuni, si scorge una roccia che cade a picco; un grosso monolite che si erge nella macchia e nel bosco. Vi è una stradina tra la boscaglia, crocevia di scoscesi sentieri ciechi che portainfine a un anfratto che si congiunge con la roccia gigante. Unico accesso per chiunque voglia sormontare il masso è un ponte.
Sorge in una vallata il Castello di Medusa, in una posizione insolita perché non ha nessuno scopo di controllo, in quanto è incredibilmente nascosto, ma solo di difesa.
Il piano del castello è ingombro di qualche albero e cespugli. Ruderi vari emergono, povero lascito di un edificio che un tempo doveva essere maestoso.
Ci sono aperture che scendono dentro il terreno e attraverso una ripida gola immettono in delle stanze sotterranee. Stabilire l’antichità di questo castello è impresa ardua. Si colloca ben prima del Medioevo, con queste grotteche fanno immaginare a delle carceri anguste. Da qui l’origine del suo spaventoso nome, riconducibile alla mitologia greca e il ritrovamento di più di una moneta romana,all’interno degliantri,che rimandano il primo nucleo della sua antica struttura proprio all’epoca romana.
Fin qui la storia del castello che mostra poco del suo antico splendore ma che nasconde ancora attraverso il suo perimetro, le sue pietre diroccate, la sua posizione angusta, molto di più di quello che all’occhio umano espone.
Il passaggio dalla storia alla leggenda non è drastico ma accompagnato da una vicenda strana e ambigua.
Storia e leggenda si fronteggiano nel proverbiale contrasto che vuole che prevalga l’una sull’altra e più spesso se questo non accade o se non ci si vuole limitare a una lettura a senso unico del fatto, l’unione tra le due è l’operazione migliore che si possa compiere. In questa vicenda s’incrociano appunto storia e leggenda, si fondono insieme, per dare vita a un avvenimento unico.
Nel 1409 nei pressi di Sanluri si consumò la famosa battaglia tra le forze catalano-aragonesi, capeggiate da Martino il Giovane e l’esercito sardo dell’ultimo giudicato ancora in vita in Sardegna, quello d’Arborea, guidato da Guglielmo III. L’esercito giudicale era composto da oltre quindicimila soldati, malamente equipaggiati, coadiuvato anche da truppe pisane, genovesi e francesi, superiori per numero rispetto ai rivali, ma inferiori per addestramento, adattamento e dotazione.
A dispetto delle numerose leggende, sono pochissime le notizie di carattere storico che si hanno a riguardo del Castello di Medusa. In questo viaggio scopriremo tutti gli aspetti reali e fantastici di questo straordinario luogo solitario.
Anche Cagliari, come Roma, Lisbona e Istanbul, è costruita su sette colli. Una coincidenza che, seppur non le conferisce la stessa importanza di queste città, contribuisce ad aumentarne il fascino. Uno dei colli è quello di San Michele. Da esso prende il nome l’omonimo quartiere. Tuttavia il quartiere di San Michele a Cagliari ha un gioiello che svetta incastonato sul colle: Il castello.
Oggi il maniero si presenta in ottime condizioni rispetto allo stato d’abbandono in cui versava pochi decenni fa. Un bel parco verde, ricco di piante ed alberi, con un panorama mozzafiato a 360 gradi sulla città e ben oltre. La struttura è stata adeguatamente restaurata e consegnata alla cittadinanza in condizioni soddisfacenti. Luogo d’incontro, di gallerie d’arte e di eventi culturali in genere, è un esempio ben riuscito di rivalutazione di un luogo e della sua storia.
Massimo Rassu e Antonello Serra hanno dedicato un interessante e piacevole libro ad un simbolo della nostra città, ad un grande patrimonio storico di notevole interesse.
Chi percorre la strada statale che dall’interno dell’isola conduce al capoluogo, già da diversi chilometri prima di arrivare alla destinazione può scorgere l’imponente contorno del castello, che in realtà appare dignitosamente modesto in confronto ad altre analoghe strutture. In diversi punti strategici di Cagliari, aguzzando la vista, lo si può intravedere ergersi orgoglioso.
In pochi conoscono la sua storia. Gli autori del sopraccitato testo hanno con precisione, dovizia di particolari e con sapiente semplicità, illustrato quanto i documenti storici e gli studi archeologici hanno testimoniato in merito alla costruzione.
Il complesso ha forma quadrilatera, costituita da tre torri integre angolari a pianta quadrangolare. Fu costruito sulle vestigia di una chiesa bizantina a sua volta costruita presso i ruderi di un monastero dedicato a San Michele. Gli storici del passato tramandarono che l’edificio originale, il convento, fosse appartenuto ai Certosini.
Durante la dominazione pisana l’edificio fu costruito sulla chiesa e su quanto rimaneva della struttura del convento. Il canonico Spano tramanda di una celebrazione solenne che veniva officiata il 29 settembre, per la ricorrenza di San Michele Arcangelo, fino al diciannovesimo secolo, in una cappella successivamente inglobata nella struttura per opera di una delle ristrutturazioni.
In un tempo lontano fatto di magiche creature saltellanti tra gli alberati boschi del mondo che non c'è, un folletto dispettoso inquieta le notti sarde dagli albori del vivere. Si narra sia in parte demone, il disturbatore dei dormienti malcapitati che, bramosi di assopirsi in totale pace e serenità d'animo, venivano svegliati nel sonno dalla piccola ma robusta creatura.
Mito dai mille appellativi, noi lo conosceremo come il folletto dalle sette berrette, per i caratteristici copricapo portati agilmente; seppur definito Pundacciu di li sette barritti dal dialetto gallurese, Ammuntadore, Matzamurreddu, e sa Surtora rispettivamente da quello logudorese, campidanese e di Ghilarza.
Una delle leggende sarde più affascinanti è quella che vede come protagoniste le panas, ovvero le anime delle donne morte di parto, obbligate per penitenza a vagare ogni notte alla ricerca di un pozzo, un ruscello o un lavatoio per lavare i propri panni e quelli dei loro sfortunati bambini. La loro triste penitenza era proprio questa: recarsi ogni notte presso un corso d’acqua, a sciacquare i panni, per sette anni consecutivi.
Le panas preferivano recarsi presso i fiumi e in silenzio o scandendo una triste litania operavano il loro tragico rituale.
Quante volte sarà capitato di ascoltare le storie narrate dai nonni dopo cena o prima di addormentarsi e lasciarsi cullare dalla loro voce che descriveva luoghi lontani e magici e personaggi fantastici. La curiosità dei più piccoli era tale da non sentire il desiderio imminente di andare a letto e la loro mente immaginava tutto ciò che le loro orecchie udivano in quel momento.
Anche nel paese di Villacidro, capoluogo di provincia del Medio Campidano, c’era la consuetudine di sedersi fuori in giardino in estate o davanti al camino d’inverno per scambiare fiabe e leggende popolari, mediante i cosiddetti Contus de foxili (racconti di focolare). Gli adulti avevano la capacità di esporre le favole del paese con cautela e senza creare timore; al contrario, destavano interesse tra i bambini che restavano seduti e facevano attenzione alle parole dei racconta storie.
Il territorio di Villacidro si presta bene come luogo di mistero e oscurità, in quanto presenta grandi distese di vegetazione data da zone boschive e di montagna. Querce, mirto, ginestre e cervi, cinghiali e falchi costituiscono il bene maggiormente presente su quest’ambiente che funge da perfetto angolo di paradiso. Il panorama mozzafiato permette di immaginare quei posti che emergono dai racconti degli adulti e di credere che essi nascondano "realtà utopistiche". Quest’immensa area offre la possibilità di creare dei miti e delle storie misteriose che sono diventate talmente di dominio pubblico da essere considerate vere.
Tanti e tanti anni fa, a Ghilarza, nel Barigadu, cuore della Sardegna, dove la montagna incontra la pianura e i venti freddi del nord incontrano lo scirocco del Campidano, venne costruita una chiesetta bianca, dedicata a Santu Antine, che si diceva avesse portato tanta fortuna agli abitanti del paese.
I rintocchi della sua campana di bronzo, che chiamavano i fedeli alla preghiera, si libravano sopra le foreste di lecci e sughere giungendo fino alla sponda opposta del fiume Tirso. Qui si trova Ulà e a quel tempo Ulesi e Ghilarzesi non andavano molto d'accordo.
"Meglio un morto in casa che un Ghilarzese fuori dalla porta!" dicevano gli uni, e gli altri, di rimando, "Se quando stai per sparare a una volpe vedi un Ulese, lascia scappare la volpe!" Rancori di campanile, di cui, ora, fortunatamente, non rimane più traccia.
In pieno centro storico a Cagliari, nel quartiere di Stampace, quasi a concludere il conclamato largo Carlo Felice, lasciandosi alla spalle la zona portuale, ma non il tipico profumo del mare della città del sole, esiste un epico antro curativo, secondo la tradizione popolare plurisecolare e chimerica sarda, la cripta di Santa Restituta.
Sottostante la chiesa omonima, la grotta si apre con una ripida scalinata che conduce nel luogo in cui ebbe inizio il suo culto, la sua prigionia, il suo martirio, ma anche la leggenda. La Stessa, infatti, in una colonna isolata in loco, sarebbe stata legata, torturata, ma rimasta fedele al suo credo, perciò arsa viva.
Da questo momento in poi fino almeno al 1800, la cripta diventa secondo la tradizione popolare fonte di guarigione per chi, colpito dalla vita nella propria integrità fisica, si recasse a far visita al posto sacro e si avvolgesse nella sua mistica atmosfera, cospargendosi della terra del sotterraneo. La singolare guarigione si cercava attraverso l'esecuzione di rituali taumaturgici, in grado di ristabilire l'equilibrio psico-fisico eliminando la causa del malessere, prodigiosamente.
La leggenda della fonte de Sa Friorosa ancora oggi viene racconta con enfasi e con grande partecipazione. Essa affonda le sue radici nella straordinaria importanza che l’acqua ha sempre avuto per il popolo sardo.
Il termine “friorosa” significa freddolosa e così fu chiamata la terza figlia di un pastore isilese. Venne chiamata così proprio perché questa povera fanciulla, a differenza delle sue due sorelle, aveva sempre brividi di freddo, in estate e in inverno; era debole, spossata, gracile, senza forze, inadatta a qualsiasi lavoro.
La piccola fanciulla non poteva rendersi utile in nessun modo, in quanto ogni piccola azione le costava tantissima fatica e questa sua inutilità era causa per lei di grande sconforto.
Pregava tanto e la sua richiesta principale era quella di poter essere utile in qualche modo alla sua famiglia; almeno una volta nella vita. Di lì a poco le sue intense preghiere sarebbero state esaudite.
Per molti è solo un bellissimo tratto che si trova sulla strada che porta verso alcune tra le più belle spiagge della provincia di Cagliari. Una località turistica ma anche un luogo abitato tutto l’anno da amanti della natura. La spiaggia di sabbia bianchissima è sempre più consumata dall’abbraccio con le acque cristalline; le ville, talvolta eleganti, talvolta semplici, arrampicandosi sulle colline, si contrappongono a quanto ancora rimane del passato rurale che per secoli ha dominato la scena. Un tempo è stata una delle tappe della vita estiva notturna, ma la crisi ha divorato le discoteche, le pizzerie e quant’altro faceva da cornice di svago.
Semplicità, lusso, tranquillità, divertimento, storia e leggenda, sono sostantivi che possono raccontare del luogo. Gli ultimi due i più interessanti. Per quanto riguarda la storia, Capitana ha un importante sito archeologico. Il Nuraghe Diana sorge a trentacinque metri dal mare sulla collina di Is Mortorius. Il promontorio prende il nome dal lazzaretto che si trovava sulla spiaggia di ghiaia. Nel territorio quartese, di cui questo compendio di terra fa parte, i nuraghi sono circa una quarantina; testimoniano la presenza dell’uomo sul territorio a partire da circa seimila anni fa.
Il nuraghe è classificato tra quelli di tipo complesso, tre torri di cui una maggiore delle altre; il complesso si estendeva fino alle pendici della scogliera, oggi è interrotto dalla strada provinciale. Una struttura costruita come fortezza di avvistamento, destinazione d’uso sfruttata poi nei secoli fino all’ultimo conflitto bellico. Un’area archeologica sottovalutata e svalutata. Gli interventi qualificatori veri e propri risalgono solo al 2000. Oggi è uno dei tanti siti archeologici della regione incompresi e messi da parte. Due ettari di terra su cui si trovavano una tonnara ed un ex lazzaretto.