La grotta de Is Janas di Sadali

Janas significa letteralmente “streghe”, ma all’occorrenza anche “fate”, stupefacenti entità in grado di cambiare aspetto a loro piacimento. 

Conosciutissime per aver abitato i monumenti megalitici più misteriosi e affascinanti, le domus de janas, costruite in Sardegna, dal Neolitico fino alla prima età del Bronzo sono disseminate un po’ ovunque nell'isola. Ora le loro tracce sono andate a perdersi nei tempi, ciò che resta è quell’incredibile velo di mistero che solo certe storie sarde riescono a preservare.

A Sadali, un bellissimo paesino adagiato su un dolce altopiano dolomitico-calcareo, a un’altezza importante, che sfiora gli 800 metri, si trova un incredibile miscuglio di bellezze naturalistiche. Non distante dal centro abitato, in un luogo ricco di fascino, una piccola grotta è dedicata proprio a queste creature soprannaturali. 

E se le domus de janas sono tombe preistoriche, interamente scavate sulla roccia, costruite dall’uomo per dare degna sepoltura ai propri cari, questa grotta è stata un’opera interamente appannaggio della natura che, da sola, nel corso dei secoli ne ha forgiato le forme, le sale, i corridoi. 

La leggenda narra che furono proprio tre janas ad abitare questa grotta e che furono pietrificate come castigo divino per aver impiccato un frate reo di averle redarguite mentre preparavano delle frittelle in periodo di Quaresima.

Foto di M. Cuccu
Foto di M. Cuccu

Lunga circa 300 metri, scoperta nell’Ottocento, la Grotta “Is Janas”, presenta un’eccellente varietà di colori e si compone di cinque sale. Le prime due, piccole ma molto affascinanti, immortalano proprio i protagonisti della vicenda: nella prima sala una poderosa stalattite, ossia il frate appeso, nella seconda tre stalagmiti vicine tra loro rappresenterebbero le tre fate pietrificate. Una volta varcata la soglia la leggenda in qualche modo prende davvero forma.

Il tempo in grotta scorre lentissimo. Si ferma. Si pietrifica. Per creare un centimetro cubo di stalattite occorrono circa cento anni. Il doppio del tempo per una stalagmite. Si procede senza fretta, per scorgere quell’infinitesima parte che ogni singola goccia contribuisce a creare. 

A un certo punto all’interno della grotta, tra lo sgocciolio lento e silenzioso dell’acqua, si può sentire un suono muto, un leggerissimo richiamo. L’orecchio si tende: “le canne dell’organo” accennano una melodia. Così viene chiamata l’ennesima opera naturale presente all’interno della cavità: piccole colonne cave che se colpite dolcemente emettono un lieve e armonioso suono. Una delle tante musiche che solo le Janas sapevano danzare.

Tra cunicoli e sottopassaggi giungiamo alla terza sala, dove prevale il colore rosso e dove le stalattiti si sono trasformate in piccole schegge appuntite, ravvicinate, sottili e corte giustamente denominate “spaghetti”. La sala successiva, priva di attività, colpisce per una serie di forme concentriche presenti nel soffitto. 

Questa serie di cerchi potrebbero rappresentare le basi di stalagmiti presenti nel piano superiore, oppure basi di stalattiti staccatesi col tempo. La quinta e ultima sala si presenta come un ambiente asciutto, cosparso dal guano dei pipistrelli, dove predomina ancora un amabile colore rossastro, che lascia spazio a una chiazza nera al centro, ricordo dei fuochi più o meno primordiali accesi dai pastori. 

Pur essendo un ambiente completamente chiuso, vi si trova una scappatoia per il fumo, costituita da un sifone naturale.

All’esterno, per il sentiero dei carbonai, si può assaporare la maestosità vera del bosco, dove i lecci dominano e la natura ripropone un altro tema, altrettanto sublime, stavolta sotto la luce del sole. Il sentiero è agevole, si snoda piacevolmente tra le querce, alcune sventrate col loro cerchio aperto ricoperto dal contorno di giovani alberi, si alternano così il timo, il rosmarino, il lentischio e l’erica scoparia usata in passato per costruire le pipe proprio in una piccola fabbrica di Sadali, ora scomparsa. 

Il sole trafigge qualche ramo, la brezza vaporosa è più che una carezza, porta un profumo denso, ricco di storie, di racconti fantastici. Sembra quasi di scorgere il geotritone, quest’anfibio endemico della Sardegna, quasi invisibile sebbene cosparso d’accesi colori, che rilascia, se minacciato, un intenso odore aromatico: intruglio di menta, rosmarino, finocchietto selvatico e lavanda.

Raggiunto il belvedere, immersi nel profumo della macchia, dalla lecceta emergono alcuni tacchi. La vista è appagata, l’olfatto pure. E solo per un attimo ci si può permettere di concentrarsi sull’udito: l’armonioso e dolce respiro della cascata de su Stampu 'e su Turrunu giunge fin qui, o è magari il canto disperato di qualche magnifica jana imprigionata.

01 August 2016

Mauro Cuccu
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