Sa femina accabadòra
Un mito che non muore mai
Tra le tante leggende sarde tramandate nel corso dei secoli, alcune più di altre hanno avuto il merito di perdurare e di mantenere inalterato quel fascino e mistero inequivocabile che solo i miti eretti tra storia e finzione possono mantenere.
Sa femina accabadora ancora oggi ricopre un ruolo preponderante nello scenario leggendario sardo e resta la figura più affascinante, sfuggente ed enigmatica di tutte quelle che la tradizione ed il folklore isolano abbiano prodotto.
Accabadòra o Agabbadòra letteralmente è colei che finisce.
Il vocabolo sardo “accabbu”, significa fine; si tratta di un termine di chiara derivazione spagnola: “acabar” significa alla lettera “dare sul capo”.
Potremmo a questo punto tradurre così: “dare la fine sul capo”. Una frase piuttosto eloquente del gesto decisivo che questa figura era tenuta a compiere.
A prima vista si potrebbe trattare di un’immagine collegata esclusivamente al decesso dell’individuo, ma una delle sue più straordinarie sfaccettature la collocano nel solco dell’esistenza, proprio tra la vita e la morte, in virtù di un aspetto fondamentale e a dir poco sorprendente: colei che dava la morte, dava anche la vita, perché come esisteva s'accabadòra che aiutava a morire, c’era di contro la levatrice che aiutava a nascere.
E si trattava della stessa identica persona.
Questo incredibile, opposto e contrastante aspetto dualistico di contemporanea elargizione di vita e morte, contraddistinse in maniera aulica uno dei simboli più controversi e impenetrabili del nostro passato; un passato a dire il vero, neanche troppo lontano.
Attorno a questa forma di eutanasia arcaica, ultimamente, si è scritto e detto molto. Si è discusso per esempio sul ruolo sociale che questo simbolo ambivalente ha avuto, perché mettere fine alle atroci pene che l’infermo stava sopportando era prerogativa solo di Dio e s’accabadòra impossessandosi di un aspetto divino fondamentale, non fece altro che rivestirsi di sacralità.
Se si aggiunge il velo di omertà e di silenzio che da sempre ha aleggiato attorno al suo nome e dell’alone di mistero e rispettosa condivisione che costantemente ha avvolto quest’ultimo suo gesto fatale, il mito è presto edificato.
Il confine tra la vita e la morte era ed è sempre sottilissimo e il malato stanco e sofferente non aveva neppure più la forza per chiedere aiuto, costretto com’era a soffrire in quest’atroce equilibrio.
É qui che s’innesca un altro aspetto basilare del ruolo de s’accabadora, un qualcosa di molto più profondo, di più intimo, di più vero del semplice gesto di uccidere. Essa, si badi bene, non uccideva, bensì poneva semplicemente fine alla sofferenza.
Le leggende della Sardegna, come giustamente fece notare l’antropologa e studiosa sarda Dolores Turchi, non fanno quasi mai riferimento ad esseri fantastici ma spesso sono il lascito di un’antica religione.
La letteratura, recentemente, ha contribuito notevolmente ad edificare il mito. Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano (due medici dell’Università di Sassari) col testo “Eutanasia ante litteram in Sardegna”, Sebastiano Depperu col libro “L’ultima agabbadora”, Edizioni Gruppo Albatros Il Filo di Viterbo, Giovanni Murineddu con “L’agabbadora. La morte invocata” sempre Edizioni Gruppo Albatros Il Filo di Viterbo, Andrea Satta “La signora della buona morte: l’accabbadora.
Riti di morte nella Sardegna tradizionale”, Dolores Turchi con “Ho visto agire s’accabadòra”, Michela Murgia col famoso romanzo “Accabadora”, sono solo alcuni esempi di come questa figura si presti ad essere raccontata in chiave letteraria. Inutile dire di come si offra ad essere analizzata ed approfondita anche da un punto di vista storico. Sono numerosi gli spazi che s’accabadòra si ritaglia tra i volumi e le tante collane di approfondimenti culturali sarde, dove fioccano studi, analisi, ricerche e contributi di ogni genere.
Ma c’è chi non crede alla figura storica de s’accabadòra e desidera attraverso un’eloquente sottotitolo “rottamarla” in tutti in sensi. Ci riferiamo al testo di Italo Bussa, “L’accabadora immaginaria, una rottamazione del mito”, Edizioni Della Torre, che in definitiva decanta l’infondatezza di quest’icona, dissacrandone tutta la mitologia e affermando che lo sviluppo di un simile mito sia dovuto in parte alla passiva credulità del popolo e alla generale confusione storica e in parte ad una certa reviviscenza identitaria, che tende sempre a ricercare usanze uniche ed insolite.
Qualunque sia la verità, l’immaginazione ci porta ad identificare questa donna come vestita di nero, silenziosa, impassibile, magari curva sotto il peso degli anni.
Essa rispondeva ad una chiamata. C’era la necessità di dare l’estrema unzione, il bisogno d’intervenire ad arrecare la morte al mal capitato che stranamente e incomprensibilmente non riusciva, per i più svariati motivi, in nessun modo ad abbandonare la vita.
E’ evidente quanto rispetto, fiducia e devozione si fosse innescato attorno a chi poteva porre fine ad un’esistenza e al mistero inscrutabile del rituale che accompagnava quel colpo di grazia al quale nessuno poteva assistere, perché lei, s’accabadòra, doveva stara da sola col moribondo.
Nessun compenso poi, nessun ringraziamento. Si assecondava la morte senza dimenticarsi che in passato veniva affrontata in maniera molto più concreta e sfacciata: era un elemento essenziale nel ciclo della vita che frappone tra la nascita e morte appunto, solo la crescita. Oggi il trapasso, probabilmente non ha la stessa valenza che aveva ieri. Si guarda ad esso con sempre più scetticismo, con anche una certa indifferenza, forse perché il mistero che si cela alla fine della vita dell’individuo non interessa più di tanto.
Della morte oggi è meglio non parlare, meglio far scendere attorno ad essa il silenzio; un silenzio più triste e spaventoso però, di quello che accompagnava sa femina accabadora.