S’attitadora e il suo solenne rituale funebre
Una delle più interessanti figure sarde del passato, ancora una volta strettamente legata alla morte, faceva la sua comparsa durante la veglia funebre, scandendo con la sua voce i vari passaggi di un rituale antichissimo e ricco di suggestione.
Stiamo parlando de s’attitadora, ovvero la prefica, figura ben nota in tutto il bacino del Mediterraneo ed elemento imprescindibile in presenza della morte.
In passato in Sardegna il lutto veniva vissuto in maniera tragica. In certi paesi dell’entroterra le vedove restavano in assoluto ritiro per lunghi anni e se la morte del consorte avveniva in maniera violenta, poteva durare tutta la vita. Vittorio Angius nel suo monumentale Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, in collaborazione col Casalis, scrisse di come il lutto in Sardegna venisse sentito in tutta la sua devastazione, raccontando di uomini che per anni non si radevano la barba e andavano squallidi e incappucciati e di vedove che una volta vestite di nero in seguito al lutto lo portavano per tutta la vita.
Is attitadoras in questa fase embrionale della morte, quando non si ha ancora la consapevolezza dell’accaduto, ricoprivano un ruolo essenziale. Erano delle donne, talvolta giovani, più frequentemente anziane, spesso vedove o che comunque avevano avuto esperienze luttuose in famiglia che venivano chiamate subito dopo la constatazione del decesso, da parte dei familiari del morto, per partecipare alla veglia.
Il loro compito era quello di prendere parte alla “cerimonia” da protagoniste assolute, anzi rappresentavano loro stesse l’elemento indispensabile in ottica di piena contemplazione del deceduto.
Giungevano quando il defunto era già “composto” nella stuoia, con i piedi rivolti verso l’uscio e quando tutta la famiglia si trovava al suo capezzale. Esse entravano nella casa che portava inequivocabilmente i segni del lutto, con le finestre chiuse ed il fuoco spento e si univano al dolore dei famigliari.
Dopo una fase iniziale di pianto comune iniziava a prendere il sopravvento una sorta di canto funebre ritmato che le varie componenti alternavano, (sos attitidos) che si faceva via via sempre più inconsolabile.
Ognuna di esse, a turno, cantava le lodi del defunto in un crescendo di disperazione continua. La fase più importante del loro operato era proprio quella che le vedeva intonare tutta una serie di nenie che esaltavano le qualità della persona passata a miglior vita.
Il canto delle prefiche assumeva svariati toni e procedeva da una lenta supplica ad una più vivace e acuta preghiera, rigorosamente improvvisata. Col passare del tempo il loro rituale subiva delle varianti gestuali che prevedevano lo strapparsi delle vesti e dei capelli; questi ultimi venivano gettati addosso al defunto in segno di rispetto e che il morto avrebbe interpretato come dolore sincero.
Uno degli aspetti più importanti del rituale de is attitadoras era legato a doppio filo al tipo di morte che aveva colpito il mal capitato. Se si trattava di una morte naturale, prevaleva il carattere dolce che era essenzialmente incentrato, come detto, sull’esaltazione delle doti del defunto, ma se la morte arrivava in modo violento, per una mano nemica, allora il canto assumeva una tonalità diversa: in questo caso la furia e la rabbia prendevano il sopravvento e il sentimento di vendetta dominava su tutto. In questi casi si assiste ad una sorta di metamorfosi con il rapido diradarsi delle belle parole iniziali di encomio.
Si passa dunque dall’iniziale sentimento d’amore a quello di odio per l’omicida ed il desiderio di vendicare quella tragica morte viene più volte sottolineato. Nel vortice del turbamento e con la spinta emozionale dettata dalle prefiche non era raro vedere consumarsi una vendetta a stretto giro, come se quelle figure nere autorizzassero il parente della vittima che assisteva attonito ed impotente al rituale, a farsi immediatamente giustizia da sé.
A tal proposito è impossibile non segnalare la straordinaria descrizione nel romanzo “La via del male”, che Grazie Deledda fa di questa pratica funebre.
Lo scopo principale de sos attitidos oltre a quello di lodare il morto era soprattutto quello di accompagnarlo nel viaggio che si apprestava a compiere. Un viaggio lungo e misterioso che necessitava della più profonda condivisione, perché i sardi con la morte ebbero sempre un rapporto particolarissimo e tutti i riti, le cerimonie, la scaramanzia, le consuetudini, le usanze arrivate fino a noi testimoniano quanto fosse forte all’interno della comunità sarda il senso della fine dell’esistenza terrena.
Oggi il lamento de is attitadoras si è spento, il loro canto sepolto, i loro gesti estinti, la loro poesia persa; si offusca quasi il loro ricordo, anche se sembra di vederle ancora, dirigersi in fila indiana, per le strette viuzze di un paesino, rasentando i ruvidi muri delle case, nere, mute, solenni, a rendere omaggio all’ennesimo individuo che aveva chiuso i conti con questo mondo, perché per loro tutto sommato, la morte, altro non era se non il giusto compimento della vita.