C’era un prete. C’era la musica. Infine c’era una passione. Questa è la storia di un museo che poteva essere, ma non è stato. Una storia tutta sarda.
La Sardegna da un punto di vista musicale è stata sempre molto ricca; da secoli il canto, la danza, i balli e i tanti variegati suoni degli strumenti tradizionali, hanno costituito una componente essenziale nella vita d’intere comunità.
A Tadasuni, piccolo comune con poco più di centocinquanta abitanti, sul versante occidentale del lago Omodeo, si trovava la più grande raccolta di strumenti tradizionali sardi.
Questa eccezionale collezione è nata tempo fa per via della grande passione che avevaper la musica il parroco del paese, Don Giovanni Dore. Tutti i pezzi che hanno composto questa collezione sono stati trovati proprio dal parroco in tutti gli angoli della Sardegna e col tempo, quella che era una passione si è trasformata in una raccolta organica sempre più numerosa che è riuscita a documentare la storia della musica tradizionale, utilizzata dai sardi nelle occasioni più importanti, di giubilo in ricorrenze quali matrimoni o feste patronali e di dolore, come nel caso dei riti sacri della Settimana Santa.
Nella roccaforte inespugnabile del Quartiere di Castello, borgo turrito rispondente alla ragion bellica dei colonizzatori della Karalis pisana e aragonese, sopravvive un prezioso equivoco dall’alto valore storico e architettonico.
Il “Ghetto degli Ebrei” della Carrer de Santa Creu- la via Santa Croce che scivola verso il Bastione in uno dei panorami più suggestivi della città di Cagliari, ha acquisito il suo nome identificativo solo nel secolo scorso, quando nella fretta o forse nella necessità di sintesi e agglomerazione semantica delle operazioni di nomenclatura ha dimenticato la sua funzione storica di casamatta militare per ridefinirsi al cittadino distratto come ghetto giudaico.
Lo sguardo adagiato lateralmente, come pensieroso e finemente affranto, la bocca semiaperta a catturare l’ultimo respiro, il viso e il busto scarnificati a strati, eppure percorsi da un’eleganza pudica, dove l’intimità dell’intreccio di vene, nervi, muscoli e involucri viene mostrata come le radici dell’albero emergono dal terreno, svelandone l’ingegnosa esistenza.
É la XII tavola delle Cere Anatomiche di Clemente Susini, che con altri sessantatre preparati e ventitre vetrine hanno sfidato due secoli di storia della ceroplastica e scelto la città di Cagliari per continuare a perpetuare la bellezza dei corpi umani di cui sono fedele rappresentazione scultorea.
Chissà cosa direbbe oggi il loro geniale modellatore se potesse interagire ancora una volta con l’anatomico Francesco Antonio Boi, fedele co-fautore: in tempi non sospetti, quando le cere assumevano forma nel fervore delle botteghe della scuola fiorentina ottocentesca e sotto la protezione del celebre fondatore del museo di La Specola Felice Fontana, probabilmente non avrebbero immaginato che il destino delle cere sarebbe stato un’isola, e una comunione d’intenti di uomini illuminati che l’Istituto Anatomico di Cagliari ha ospitato nel momento di maggior delicatezza dell’ opera di Susini.
Il prof. Castaldi prima e i docenti Maxia e Cattaneo, quasi stregati dalla bellezza della collezione, li protessero dai disastri della seconda guerra mondiale e approfondirono fino alla ricostruzione della storia di una simbiosi tra arte e scienza che non sembra trovare eguali in nessuna parte del mondo.
L’ha sempre saputo e non se lo dimentica Alessandro Riva, professore emerito dell’Università di Cagliari, docente di Anatomia umana nella Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Cagliari, titolare della cattedra di Storia delle Medicina e decennale curatore, ormai quasi padre putativo dell’opera ceroplastica del Susini.
La stratificazione degli usi degli edifici storici nelle città dalla storia millenaria sono una ricchezza culturale spesso estranea agli stessi cittadini, poco avvezzi a sostituire uno sguardo distratto con una voglia di memoria e di appartenenza che provochi in loro il desiderio di provare a vivere quegli stessi luoghi con gli occhi dei loro precedenti utilizzi. Questo sostrato di vite, contenuti ed architetture è spesso un susseguirsi di dicotomie, paradossi, stridenti dissonanze.
Nelle sale calcaree del centro culturale Exmà di Cagliari, se l’eco delle vite architettoniche e degli usi passati potessero rigurgitare dai muri e dalle piastrelle di cotto, tali contrasti risuonerebbero con la ferocia del coltello e il boato penoso di un lamento. Un mattatoio, altrimenti detto, brutalmente,ammazzatojo. Fu il primo macello pubblico cittadino e rimase meta degli insogadoris (uomini con lazo) che attraversavano le strade del quartiere Villanova in direzione del macello fino al 1964.
La palazzina ottocentesca posta lungo viale Sant'Ignazio da Laconi che ospita l'Istituto di Botanica, accoglie una tra le più importanti innovazioni culturali e di ricerca visitata da esperti provenienti da varie parti del mondo, il Museo Erbario.
Sito all'interno del maestoso percorso floreale dell'Orto Botanico si propone come museo atipico poiché non espositivo, ma dedito alla conservazione di exsiccata, piante essiccate e catalogate a scopo scientifico e didattico. L’Erbario è sorto con la fondazione dell’ Orto Botanico (1862-1866) ad opera di Patrizio Gennari ed è censito grazie alla sua potenzialità ed al suo patrimonio nell’Index Herbariorum con la sigla di Herbarium CAG ed aderisce al CIMCAS (Centro Interdipartimentale Musei, Collezioni ed Archivi Storici dell’Università di Cagliari).
Consta di circa sessantacinquemila exsiccata di piante vascolari a cui si aggiungono importanti collezioni di Alghe, Briofite, Funghi ed una peculiare Cecidoteca, ovvero collezione di “Galle”. Sono custoditi exsiccata in ottimo stato di conservazione, i più antichi risalenti al 1857, che rappresentano importanti testimonianze della storia della Botanica in Sardegna.
La cinta muraria del Castello di Cagliari (Castedd 'e susu) custodisce un prezioso luogo d'arte sacra, il Museo del Duomo. Lungo il Fossario si può ammirare il panorama cittadino in tutta la sua bellezza, preludio alle meraviglie contenute nel museo. La struttura espositiva è ricavata dai locali di quello che furono il seminario e le carceri.
Restaurato con i fondi del Giubileo, dopo l'intervento della direttrice, l'ing. Maria Lucia Baire, il museo è stato inaugurato nel 2004 per esporre al pubblico i preziosi beni da tempo conservati nella cattedrale di Santa Maria.
L'esposizione si apre con il gruppo scultoreo, Il Compianto sul Cristo morto, a grandezza naturale, custodito in una piccola sala detta del Compianto. Le sette statue, datate intorno alla fine del 1400, realizzate in legno policromo, sono di scuola catalana. La similitudine con il gruppo di Santa Ana di Barcellona fa presupporre che per la loro realizzazione siano stati usati dei cartoni preparatori per permetterne una riproduzione fedele. La scultura del Cristo, è invece di epoca successiva.
L'archeologia (dal greco ἀρχαῖος "antico", λόγος "studio" ) definita in passato come "scienza ausiliaria della storia", permette di studiare le civiltà più remote e il loro legame con il presente, tramite la raccolta di documenti e l'analisi dei resti umani e biologici nonché dei manufatti e architetture, avendo come primo grande mezzo lo scavo stratigrafico. La Sardegna non manca di offrire un ampio oggetto di studio con i suoi risalenti siti archeologici.
È l'aggregato rurale di Cabras ad ospitare il Museo civico dedicato al cabrarese amministrativista Marongiu, Ministro per gli interventi Straordinari nel Mezzoggiorno nell'ultimo governo Andreotti. Il comune, sito nella regione del Campidano di Oristan,o sulla riva sinistra dello Stagno Mari Pontis, è denominato Masone de Capras dalla fine dell'XI secolo, arco temporale in cui risalgono i primi insediamenti nell'attuale centro abitato in seguito allo spopolamento di Tharros, a causa delle incursioni dei corsari africani.
Da sempre luogo simbolo di cultura, Cabras, con il suo Museo civico si fa promotrice di una ricca esposizione di reperti archeologici, tracce del territorio locale dalla Preistoria al Medioevo e attestanti la storia peninsulare del Sinis.
Dura la vita del pastore. La sua difficile esistenza fatta di miseria, fame, sacrifici e solitudine è stata decantata da molti poeti e scrittori sardi che puntualmente hanno evidenziato non solo questi tragici aspetti ma anche la ricchezza, la genuinità e la poliedricità di questa figura, elemento centrale della cultura sarda da generazioni.
La comunità di Fonni, è uno dei luoghi in Sardegna dove la presenza del pastore è sempre stata molto forte e radicata. L’unico modo per far rivivere questa figura, per rappresentarla nella sua naturale essenza era quello di “mostrarla”attraverso un percorso museale e di definire in maniera chiara e precisa la sua importanza all’interno della società sarda.
La cittadina di Bosa a fine ottocento e per tutta la prima metà del novecento è stata la capitale delle concerie in Sardegna e in Italia. Unico nel suo genere, il Museo delle Conce di Bosa, rappresenta oggi, un luogo di straordinaria importanza per conoscere tutti i segreti della lavorazione delle pelli.
Il Museo delle concerie situato in Via Sas Conzas, a ridosso del fiume Temo, è nato con l'intento di far conoscere l'antico e affascinante lavoro del conciatore, molto diffuso a Bosa, che si è protratto per tutto l'Ottocento, fino al 1962, anno in cui chiuse definitivamente l’ultima conceria.
Aggius, attraente centro gallurese che si può fregiare della bandiera arancione del Touring Club per il turismo dell’entroterra, è una meta imperdibile per il turista che si addentra in Gallura. Ha, infatti, un bellissimo centro storico, con le sue solide case di granito e i vicoli ben curati, intatto nella sua antica struttura e incredibilmente ben conservato e a una natura circostante altrettanto affascinante.
Le caratteristiche cime seghettate che sovrastano il centro abitato e la famosa Valle della Luna, (chiamata così per la particolare forma delle rocce e dei sassi che vi si trovano, simili appunto a un paesaggio lunare), sono solo due dei tanti luoghi incantevoli che questa parte di Gallura offre. Non poteva mancare in un simile contesto un museo e quello che si trova ad Aggius è complesso museale straordinario che offre anche un qualcosa di incredibilmente insolito: una parte è infatti interamente dedicato al banditismo.
Il Museo del Cavallino della Giara si trova nel cuore di Genoni, in una bellissima casa campidanese a corte centrale, risalente al 1928. Aperto dal 2006, inaugurato col nuovo allestimento il 28 dicembre del 2014, il Museo si ripropone l’importante compito di raccogliere attraverso le testimonianze (dirette e indirette), degli abitanti di Genoni, buona parte della memoria storica del paese, per farla rivivere in tutti gli ambienti che lo compongono. Tutto questo accompagnato dalla costante presenza del cavallino della Giara, ombra fedele e tenace che da sempre ha seguito l'uomo in tutte le sue vicissitudini; un elemento chiave, imprescindibile.
Museo come centro di ricerca e conservazione della memoria storica del territorio, ma anche e soprattutto Museo come centro polivalente, luogo capace di coinvolgere veramente la popolazione locale, attraverso una serie di brevi interviste, tese a documentare in modo proficuo i ricordi, rendendoli indelebili.
E proprio attraverso queste microstorie che il Museo prende davvero vita e mantiene realmente integra la memoria, elemento cardine, che fa da cerniera con il territorio, preservandolo e riproponendolo in maniera del tutto autentica.
Una voce imponente tramanda le tradizioni e le arti originarie della Sardegna nelle sale espositive del Museo Il Ciclo della vita, lungo la via storica quartese Eligio Porcu.
"La casa del mezzadro", con i suoi cinquemila reperti di vario genere, ripercorre il modo di vivere del mondo agro-pastorale sardo dalla sua angolatura privata. Da qui il nome del museo, fermamente emblematico ed evocativo, che permette di comprendere la finalità dell'esposizione museale: il filo conduttore della vita quotidiana che lega tutta l'isola.
Da una passione adolescenziale per gli strumenti musicali in genere a un amore più specifico e dettagliato per numerosi pezzi provenienti da tutto il mondo. Così nasce l’idea di Antonio Ghiani di istituire il museo Sonus de su mundu, ad Assemini, nella Provincia di Cagliari. Trent’anni fa, la sua dedizione per le launeddas l’ha condotto verso il mondo degli strumenti popolari tipici delle altre nazioni. Dal confronto con lo strumento rappresentante la Sardegna, è nato il desiderio di conoscere il luogo nel quale tali strumenti sono stati elaborati e realizzati.
Un tempo, gli strumenti musicali erano divisi per il tipo di materiale con il quale erano costruiti – per esempio i legni, gli ottoni ecc. In seguito, si è passati a identificarli per categoria con il sistema Hornbostel-Sachs,che li suddivide in cinque famiglie, secondo il metodo di produzione del suono: Membranofoni – in cui il suono è prodotto dalla vibrazione di una membrana tesa; gli Aerofoni : emettono il suono per mezzo di una colonna d'aria che vibra all'interno dello strumento; i Cordofoni : producono il suono attraverso le vibrazioni prodotte dalle corde di cui sono dotati, che possono essere percosse (es. pianoforte), pizzicate ( es. arpa), strofinate (es. violino) o messe in vibrazione dal vento; gli Idiofoni : il suono è prodotto dalla vibrazione del corpo dello strumento stesso; gli Elettrofoni : il suono viene generato per mezzo di elettricità.
All’interno del Museo sono esposte queste diverse categorie e la loro sistemazione è studiata in modo perfetto: appena il visitatore entra dentro, si lascia abbagliare dalla moltitudine di pezzi presenti. Subito dopo, la sua attenzione è posta sul lato destro, nel quale sono posizionati gli strumenti tipici della Sardegna, tra i quali spicca quello che la simboleggia più di tutti: le launeddas.
Una scelta precisa nella disposizione di tali oggetti, oramai considerati opere d’arte di indiscusso valore. Si inizia con gli strumenti provenienti dall’Isola, ai quali si cerca di personalizzare e di avvicinare quelli stranieri, in modo da replicare le musiche. Su tumbarinu de sa cointrozza, su triangulu, sa matracca, su tumbarinu cun criccos, sa matracca ‘e arroda, su sulittu e tamburinu - quest’ultimo veniva impiegato per emettere il bando e per ritmare il ballo ed è ancora utilizzato in Spagna e Argentina.
Proseguendo la visita, si possono notare strumenti che hanno origine dall’Africa: Camerun, Marocco, Tunisia, Egitto, Etiopia, Kenya, Guinea, Mali, Senegal; dall’America, soprattutto quella del Sud, come Bolivia, Cile, Ecuador e Perù; dall’Europa: Bulgaria, Grecia, Germania, Ungheria, Russia, e da altri Paesi dell’Est, dalla Mongolia, dall’Estremo Oriente, Cina, Tibet, Vietnam, dalla Cambogia, Thailandia, dall’India. L’India offre anche strumenti tipici della sua musica classica. Tanti gli strumenti e le nazioni rappresentate nella collezione.
Passione e rispetto per oggetti comuni, che appartengono alla vita e al lavoro quotidiano di un ferroviere, costituiscono i sentimenti basilari per la fondazione di un museo fuori dal comune, come il Museo Ferroviario Sardo di Cagliari. La conservazione di articoli di grande valore è importante per la salvaguardia e la ripresa di elementi che, altrimenti, verrebbero trascurati e dispersi.
Istituito nel 1985, il Museo è nato grazie all’idea dell’allora Direttore Compartimentale, Antonio Sanesi, il quale, appassionato di archeologia industriale ferroviaria, amava raccogliere testimonianze del passato sparse qua e là nelle stazioni, allo scopo di recuperare oggetti da lui considerati importanti, che voleva lo diventassero anche per gli altri. Permise, quindi, di conoscere tali reperti,allestendo una mostra alla Cittadella dei Musei di Cagliari, nel 1983. Tale evento fu apprezzato talmente tanto che si decise di dargli una concreta visibilità, rendendolo permanenteattraverso la costruzione del Museo Ferroviario che, attualmente è gestito da Trenitalia e da Rete Ferroviaria Italiana.
Sa femina accabadòra o femina agabbadòra, letteralmente è colei che finisce. Il vocabolo sardo “accabbu”, ossia, fine, è un termine di chiara derivazione spagnola: “acabar” significa alla lettera “dare sul capo”.
Una parola chiarissima attraverso un gesto altrettanto eloquente: dare la fine sul capo, atto che racchiude in modo inequivocabile la funzione di questa misteriosa ed emblematica figura.
Essa si colloca nel solco dell’esistenza, tra la vita e la morte in virtù di un aspetto di primissimo piano a dir poco incredibile: colei che dava la morte, dava anche la vita, perché come esisteva s'accabadora che aiutava a morire, c’era di contro la levatrice che aiutava a nascere. E si trattava della stessa identica persona.
Basterebbe questo opposto e contrastante aspetto dualistico elargizione di vita e morte, a contraddistinguere in maniera aulica uno dei simboli più controversi e impenetrabili del nostro passato; un passato neanche troppo lontano.
Attorno a questa forma di eutanasia arcaica, ultimamente, si è scritto e detto molto, si è discusso del ruolo sociale che questo simbolo ambivalente ha avuto, del velo di omertà e di silenzio che da sempre ha aleggiato attorno al suo nome e dell’alone di mistero che costantemente ha avvolto quest’ultimo suo gesto fatale.
Il confine tra la vita e la morte è sottilissimo, nel momento in cui il malato stanco e sofferente attende la sua ora. Ma in tutto questo c’è qualcosa di più profondo, di più intimo, di più vero. Questa donna, si badi bene, non uccideva, bensì dava la morte.
A Luras c’è un luogo stupefacente che oltre a tanti reperti interessanti della cultura e della tradizione della Sardegna custodisce il martello de sa femina agabbadòra, l’arnese utilizzato per dare l’agognata morte al malato moribondo.
Pier Giacomo Pala, proprietario del museo Galluras, dove è custodito il famoso martello, ha dedicato trent'anni di studio a questa figura e ha scritto un volume dal titolo - Antologia della Femina Agabbadora -, dove racconta, tra l’altro di come ha scoperto questo incredibile reperto.
Questa storia è innanzitutto la storia di una tenace e faticosa ricerca, durata anni, e di un incredibile e insperato ritrovamento.
“Ho aspettato tanto, forse troppo, qualcuno che mi aiutasse a trascrivere, ordinare e curare la raccolta del materiale, che negli anni, sono riuscito a reperire sulla femina agabbadòra. Mi sono rivolto a studiosi e scrittori ma se l’idea non nasce da loro, tutto diventa più difficile o più facile, infatti, nessuno di loro mi ha aiutato”.
Samugheo è stato da sempre uno dei centri più importanti in Sardegna per l’arte tessile. Il suo isolamento geografico ha rappresentato un elemento cardine per la conservazione e la salvaguardia di una tradizione culturale e artigianale tra le più prolifiche e originali dell’isola. Nel grazioso centro del Mandrolisai la tessitura tradizionale è fiorentissima e ricca di tanti aspetti affascinanti. La creazione nel 2002 del MURATS (Museo Unico Regionale Artigianato Tessile Sardo), è stata la diretta conseguenza di questa vocazione, orientata a preservare la memoria tessile non solo di Samugheo ma di tutta la Sardegna.
Il Museo espone un vasto repertorio di manufatti provenienti da tutta l’isola. Molti di essi sono di notevole pregio e sono stati recuperati in diverse aree della Sardegna ed esposti nella sezione permanente del museo che si trova al primo piano.
Abbiamo raggiunto il Direttore del Museo, il dottor Baingio Cuccu, che ci illustra i reperti più antichi e preziosi presenti nella struttura e tutte le iniziative che si stanno portando avanti.
Un museo dedicato allo spopolamento e all’abbandono dei centri abitati. A Sorso, comune di quattordicimila abitanti a pochi chilometri da Sassari, all’ultimo piano del pregevole Palazzo Baronale, si trova un museo che si occupa proprio di questo; ovvero di tutti quei centri abitati che nel passato non sono riusciti a sopravvivere e, per un motivo o per l’altro, non sono giunti ai giorni nostri.
Primo museo in Italia dedicato al tema dello spopolamento, Biddas, Museo dei villaggi abbandonati della Sardegna, espone in modo preciso ed esaustivo, partendo dai processi di sfollamento di epoca contemporanea, un percorso di notevole fascino che arriva ai casi di spopolamento nel Medioevo e offre una chiave di lettura molto interessante sulle cause che hanno portato all’abbandono di questi sfortunati centri.