(…) No mi lassu a Nostra Signora
Idda è la patrona,
e la divina aurora
chi dà luci in dugna zona.
Tutta la Gaddhura l’adora
E li mittisi la curona,
Idda è la mamma suprema
Di tuttu lu sistema.
La Madonna in carrulu arriesi
Cussì ci dici la storia,
e in Locusantu si filmesi
pà veneralla in gloria.
Da lu primmu a l’ultimu mesi
L’agghjmi sempre in mimoria,
Noi tutti canti
La Madonna e li Santi.(…)
Petru Cracchja, Pirina
In provincia di Sassari, lungo la strada che da Tempio Pausania porta a Palau e Santa Teresa di Gallura, sorge, su una collina dominante il territorio circostante, Luogosanto (Locu Santu), un piccolo gioiello di granito a 320 m. sul livello del mare che sembra addensare in uno spazio non vastissimo la grazia speciale dei luoghi più adatti di altri alla spiritualità.
Circondato da boschi di querce verdissime e sugherete con affioramenti granitici che rendono il paesaggio molto movimentato, Luogosanto ospita ben 22 chiese, tra cui la Basilica di Nostra Signora di Luogosanto, dedicata al culto di Maria bambina.
La Chiesa sorse già nel XIII secolo per opera dei Francescani i quali, si racconta, edificarono la prima costruzione dopo un’apparizione della Madonna che indicava il luogo nel quale si sarebbero trovate le reliquie dei Santi Nicola e Trano. Il Papa elevò in seguito la chiesa al rango di Basilica minore dotandola della Porta Santa.
Ogni sette anni aperta e poi murata, attualmente essa è in bronzo (Luca Luchetti) e narra in tre quadri la storia della chiesa.
Iside, la divinità femminile egizia per eccellenza, figlia di Nut e Geb, sorella di Osiride, sposa dello stesso fratello e madre di Horus, arrivò in Sardegna.
Il culto in Sardegna della Dea della maternità e della fertilità, è testimoniato dal ritrovamento di tre bronzetti: uno rappresenta la Dea con le corna ed il disco solare sopra il capo, che stanno a rappresentare la triade divina Sole, Luna e Terra, in unione con la protome bovina.
La triade divina rappresenta certamente uno stereotipo comune a moltissimi popoli del più lontano passato; possiamo infatti ritrovare il culto nei popoli americani precolombiani, in Brasile ed in molti altri popoli che parrebbero essere i superstiti di una civiltà e di un culto molto antico di cui si è persa la memoria nella notte dei tempi, forse quando una civiltà precedente alla nostra, fu spazzata via dalle furie di un cataclisma che, tuttavia non è riuscito a sopirne completamente la memoria.
Tornando alla protome bovina con molta probabilità era anch’essa un riferimento al Sole e la Luna, essa rappresenta in Sardegna un relitto etnografico decisamente importante.
Gli edifici sacri del periodo nuragico avevano nella stragrande maggioranza una planimetria a forma di corna, inoltre, anche a livello etnografico, esse sono approdate nei tempi moderni, conservandosi nella gestualità dello scongiuro e nelle maschere dei Boes che ancora oggi, nel carnevale di Ottana, portano alla luce l’antichissima memoria del periodo nuragico.
Il culto della Madonna d'Itria è legato alla tradizione bizantina. L'origine è da cercarsi in una leggenda che vuole che San Luca Evangelista, divenuto poi patrono dei pittori, dipingesse il ritratto della Madonna durante il suo soggiorno a Gerusalemme.
Il dipinto sarebbe poi stato trovato in Terrasanta nel V sec. da Aelia Eudocia, moglie dell'imperatore Teodosio II , che lo portò con sé a Costantinopoli.
Qui lo fece collocare nella chiesa di Odigi, da cui deriverebbe l'appellativo di Odighitria, dal greco "odigos", ossia "colei che indica la via". La tradizione vuole che sia raffigurata con il bimbo in braccio in atto benedicente con una pergamena arrotolata nell'altra mano, che la Vergine indica.
Una leggenda sarda vuole ancora una volta una statua della Madonna protagonista di un naufragio.
Trovata in una cassa galleggiante nelle acque del golfo di Cagliari fu portata a riva e assegnata alle suore del convento di Pauli Arbarei. Durante il tragitto, il carro che portava il simulacro fece alcune soste.
Si racconta che il 26 maggio del 1208 una donna ammantata di luce apparve a un povero muto intento a raccoglier legna sulla spiaggia della Rena Bianca, nei pressi di Sorso.
La donna chiese al muto di tornare subito in paese e di riferire al sacerdote e ai compaesani di andare a prenderla, offrendo loro in cambio protezione dai pirati saraceni.
Il pover' uomo, disperato per non sapere come fare a comunicare fu incoraggiato dalla Madonna e, arrivato in paese, ebbe inaspettatamente il dono della parola.
Il popolo gridò al miracolo e, una volta accorso nel luogo indicato dall'uomo al posto dell'apparizione trovò una statua della Madonna.
Il simulacro venne trasportato in paese e deposto nella chiesa di san Pantaleo.
La mattina dopo però la statua era sparita. Venne cercata dappertutto per giorni, finché non venne ritrovata in cima a un albero d'olivo.
Fu riportata in chiesa, ma la notte sparì di nuovo e fu ritrovata sulla medesima pianta, ma stavolta sotto i piedi un pietra sulla quale erano incise le parole "Noli me tollere".
La chiesetta di Santa Maria di Seve è un suggestivo edificio in stile romanico che risale al 1260.
Si tratta di una chiesa che rispecchia il classico stile romanico sardo a navata unica, facciata ad arcate, campanile a vela e che presenta due distinti ingressi adornati con pregevoli capitelli.
La chiesetta, conosciuta anche col nome di Santa Maria di Cea, si dice fosse parte integrante di un eremo gestito dai monaci vallombrosani.
Gli scarsi documenti medievali ritrovati accennano a un monastero (di cui oggi rimangono solo le fondamenta), con annessa la chiesa, il romitorio e un cortile interno recintato adibito all’allevamento di qualche animale e alla coltivazione di ortaggi e legumi.
C'è un filo conduttore che lega le grandi divinità femminili dell'area del Mediterraneo ai più moderni culti mariani.
La Grande Madre è una divinità femminile primordiale, presente in quasi tutte le mitologie, che simboleggia la terra, la prosperità, il femminile come ente mediatore tra l’umano e il divino.
Già in età nuragica immagini votive femminili, in quanto simboli legati alla fecondità, costellavano i luoghi di culto, dove si dedicavano loro riti propiziatori e preghiere.
Spesso dove si svolgevano i culti pagani sono stati eretti santuari dedicati alla Madonna.
Le origini del culto della Madonna di Gonare risalgono al XII secolo e sono legate al giudice Gonario di Torres, che per adempiere a un voto, fece erigere un santuario in suo onore.
Di ritorno da Gerusalemme ove si era recato a combattere per la seconda Crociata, arrivato davanti al Golfo di Orosei la nave “incappò in una violenta tempesta che minacciava di sommergere tutti.
Allora Gonario promise che, se la Vergine li avesse salvati dal naufragio, avrebbe edificato un tempio alla Madonna nel primo lembo di terra dell’isola fosse loro apparso. La vetta di un monte si illuminò e la tempesta cessò.
La luce continuò a brillare, a dispetto della luce del sole che nel frattempo era sorto, guidandolo nel luogo esatto dove sarebbe stato eretto il tempio, su un monte tra Orani e Sarule, che prese in seguito il nome del giudice.
La leggenda narra che Gonario, dirigendosi verso il luogo indicato dalla luce, incontrò una donna con un bambino in braccio che lo accompagnò durante il tragitto. Stanca per la salita ripida e per il peso del bambino, la donna sentì il bisogno di riposare un poco.
Nel frattempo Gonario esplorò l'area per scegliere il luogo più adatto, ma tornato a riferirle quale luogo avesse scelto non la trovò più. Il giudice ritenne allora che la donna dovesse essere la Madonna in persona e il luogo più adatto fosse quello dove si era fermata per riposare."
La storia della Madonna dello Schiavo affonda le radici nell’Africa settentrionale in un passato non molto lontano.
Intorno alla metà del 1500 un gruppo di pescatori si stabilisce nella zona nord-ovest della Tunisia, nei pressi dell’antica Tabarka, una colonia romana oggi al confine con l’Algeria.
Per quasi duecento anni gli abitanti di questa piccola cittadina diedero vita oltre che a una redditiva attività di pesca di corallo anche a un altrettanto fiorente commercio di spezie.
I Lomellini, l’aristocratica famiglia genovese che ebbe in consegna l’isolotto e il porticciolo di Tabarka iniziarono ad avere, col passare del tempo, sempre più contrasti con le popolazioni locali che sfociarono in atti di violenza, ricatti e minacce, col pericolo della schiavitù perpetuato da parte del Rais che aveva il controllo di quella zona, sempre più incombente.
Visto il precipitare della situazione, il Re Carlo Emanuele III di Savoia cercò un altro luogo sicuro dove trasferire quella comunità che aveva da subito professato la fede cristiana.
Fu scelta l’Isola disabitata di San Pietro, (chiamata allora Isola degli Sparvieri) nella parte sud-occidentale della Sardegna e i Tabarchini nel 1738 si trasferirono di buon grado in quel lembo di terra fondando un piccolo insediamento che chiamarono Carloforte, in segno di riconoscenza per la forza manifestata dal sovrano che gli aveva concesso quella nuova patria.
Il santuario della Madonna di Bonacatu, di epoca bizantina è il più antico dell'isola dedicato al culto mariano.
La chiesetta, che si trova a ridosso della basilica romanica di S. Maria di Bonarcado e ai ruderi del monastero dei Camaldolesi, fu edificata nel VI sec. su un edificio romano paleocristiano.
La pianta è a croce greca e dall'incrocio dei bracci si eleva una piccola cupola. La facciata è decorata con degli archetti sotto i quali sono incastrate delle maioliche.
La tradizione vuole che la chiesetta fosse stata scoperta casualmente nel bosco da un cacciatore, da qui il nome Bonacatu, ossia buon ritrovamento.
All'interno della chiesa vi era un'antichissima immagine della Madonna che diede inizio al culto.