Il martire Saturnino (285-304) nacque a Cagliari e visse da civis secondo il credo cattolico per scelta formativa familiare.
La forza d’animo e la maturità caratteriale contrassegnarono la personalità del santo.
Nonostante la sua giovane età, gli permisero di contrastare l’idolatria pagana, alla quale non si arrese neanche sotto il dominio persecutorio di Diocleziano e Massimiliano.
Durante quest'epoca, il consenso al commercio era subordinato al sacrificio a Giove e agli Dei pagani; coloro che si fossero rifiutati di effettuare la pratica ordinata, sarebbero stati imprigionati e decapitati dopo la tortura.
Fu tale il destino di Saturnino, divenuto martire proprio per aver incarnato la fedeltà alla parola di Cristo.
I fatti accaddero il giorno del 23 novembre, quando nel Campidoglio cagliaritano si svolsero i sacrifici in onore del dio pagano Giove.
È una verità assoluta quella secondo la quale chi ha fede riesca ad attraversare l’infinito e a oltrepassare l’ignoto.
Credere significa avere speranza e convinzione totale che qualsiasi problema possa essere risolto.
Tenere salde le proprie idee significa avere il coraggio di affrontare qualunque situazione. Antioco, divenuto successivamente, Sant’Antioco, è riuscito a dimostrare proprio questo.
Medico, vissuto durante l’impero di Adriano, Antioco non scelse di sfidare la sorte, ma volle portare avanti le proprie convinzioni legate al Cristianesimo.
Il suo credo religioso era talmente forte, che lo costrinse a subire delle pesanti punizioni, ma questo non rappresentò alcun dolore per lui, perché i principi che lo legavano alla fede lo portarono a superare numerose prove.
Antonia Mesina era giovane e bella quando incontrò il suo assassino. Pensare a lei, figlia docile d’una terra indocile e aspra come la Sardegna dell’interno, ricorda i fiori che danno colore ai muretti a secco coperti di rampicanti o ai cespugli di plumbago in fiore, accostato a diversi toni sanguigni della bougainvillea.
Ma sono i colori viola, bianchi e gialli di una passiflora rampicante, il frutto della passione dalla forma perfetta e complessa, che sembrano accostarsi di più e meglio al destino spirituale della Beata di Orgosolo.
Da queste tinte e da questi simboli prende corpo la suggestiva figura umana della Mesina che trae forza e intensità emotiva dalla natura rigogliosa delle campagne intorno a Orgosolo da cui, giovanissima vittima, aveva saputo prendere tutto il più bello e il più buono.
Limpida e chiara come il cielo, ha poi saputo restituire dignità ad una terra nuda e ingrata.
Modello di umiltà, contrastò l'aggressività di una terra selvaggia opponendosi con coraggio e volontà al suo torturatore, fino al sacrificio di sé.
Tale vigore d'animo rimane attuale nella vita di oggi, un esempio per non farsi sopraffare dalle cose ingiuste, malevole, facili e superficiali.
La zona della Sardegna di Dorgali è una delle più estese dell'isola. Il suo territorio si staglia fra un mare limpido e cristallino di un celeste unico, che fa del Golfo di Orosei uno dei luoghi più belli al mondo.
È qui che Maria Sagheddu, chiamata successivamente Maù dalle consorelle, nacque il 17 marzo 1914 in una numerosa famiglia di pastori.
Rimasta presto orfana, dovette lavorare per aiutare la famiglia. Il suo interesse per l’Azione Cattolica fu repentino e tardivo: aveva già 18 anni quando vi si iscrisse. Divenne riflessiva, riservata, elegante, austera e determinata. Crebbe in lei lo spirito di preghiera e meditazione, accentuando le sue doti di gentilezza, carità e benevolenza nei confronti degli altri.
Il vice parroco, don Basilio Meloni, intuendo in lei la propensione alla dedizione religiosa, la seguì in una attenta direzione spirituale suggerendole poi la Trappa come ordine più vicino alla sua sensibilità. Maria accettò con gioia.
La Trappa al femminile è un ordine molto particolare, fatto di sacrifici, semplicità, lavoro e dedizione, preghiera.
Maria ringraziava Dio ed era felice della sua vocazione.
Scelse il nome di Maria Gabriella dell'Unità perché l’Amore divino, sacrificato per la nostra salvezza, doveva trovare gli uomini uniti in Dio. Questo ispirò la successiva azione di Maria Gabriella che dedicò se stessa al servizio dell’Unità dei Cristiani.
Fu la prima beata dell’Azione Cattolica Italiana nonché la prima fra i giovani sardi.
Conoscere Simona oltre il sentito dire e oltre i testi ufficiali. Chi era Simona per chi l'ha conosciuta?
Di Simona ricordo l'amicizia, trasparente e profonda nello stesso tempo. Era impossibile non mettere qualcosa in comune o in comunione fraterna con lei. L’ho conosciuta per caso, ad un incontro di preghiera a cui non volevo neanche partecipare; ma nel cammino spirituale nulla accade per caso... Anzi, me lo disse schiettamente lei, proprio in quella occasione. Cercavo una risposta, cercavo un senso. E poi la sentii cantare e mi dissi: “Quella ragazza canta col cuore e io la sento intensamente”.
Essere donna in Sardegna. Che significato ha oggi la femminilità oltre le apparenze?
Ventenne, era una ragazza della porta accanto, acqua e sapone, attiva, attenta ai problemi politici, economici e sociali. Aderiva profondamente all’insegnamento cattolico e ne rispettava le regole.
I suoi atteggiamenti non erano mai prevaricatori, amava stare in compagnia e, come tutte le giovani di quell'età, condivideva volentieri i momenti di svago. Le piaceva moltissimo la musica.
Amicizie e fidanzamenti?
Simona avrebbe voluto sposarsi. Desiderava nel suo futuro avere dei figli, avere una bella famiglia e trovarsi un lavoro dignitoso dopo gli studi, unendo ad esso il suo costante aiuto alla sua amata Chiesa.
Erano tanti i suoi progetti: gli studi, le speranze, le sue attività per il sociale e il forte impegno per costruirsi una famiglia con l'amato fidanzato Sergio... tutto tragicamente spezzato sul nascere.
Per Simona l'amore era un regalo immenso da donare senza riserve, e senza attendersi nulla in cambio. Per lei l'amore era quello che sapeva attendere, che sapeva fare miracoli senza far rumore.
Giovanni Angelo Salvatore Medda nacque a Gesturi il cinque agosto del 1882 da una famiglia di umili contadini oristanesi, dotati di una profonda propensione umanitaria e cattolica.
All’età di tredici anni, rimasto orfano anche di madre, cominciò la sua vita lavorativa da servo presso un ricco possidente del paese.
Dopo la morte di costui, proseguì la stessa attività servile presso il cognato della sorella, non per condizioni di necessità, ma per scelta personale.
L’evento che determinò la sua vita religiosa, fu legato al suo stato di salute: venne colpito, infatti, da un reumatismo articolare che lo costrinse per quasi due mesi a letto, durante i quali fece il voto del digiuno per il sabato di ogni settimana, che proseguì per tutta la vita.
É la semplicità del gesto della talentuosa ricamatrice, abile, paziente, costante, che rappresenta efficacemente la vita di Edvige Carboni, una vita, tuttavia, niente affatto semplice da descrivere, una vita notevole, benché ordinaria e lineare, una vita i cui accadimenti per noi straordinari sono stati per lei del tutto normali, una vita ora al vaglio della Congregazione per le cause dei santi.
Le testimonianze di fatti documentati nel suo Diario, e attestati da persone che hanno visto con i loro occhi e sentito con le proprie orecchie cose che non dimenticheranno mai, ci lasciano talvolta interdetti. Edvige è la prova di quanto Kierkegaard ha sostenuto a proposito della fede, “La fede è la più alta passione d'ogni uomo”1.
Ma Edvige va oltre: incarna proprio ciò che la tradizione spirituale della Chiesa indica come cuore, nel senso biblico di «profondità dell'essere» («in visceribus»: Gen 31, 33) dove la persona decide o non decide per Dio.
Edvige Carboni, nata il 3 maggio del 1880 a Pozzomaggiore in provincia di Sassari, fu la seconda di cinque fratelli e sorelle. I genitori, Maria Domenica e Giovanni Battista, si resero subito conto che lei era speciale.
Sua madre raccontava che alla nascita della piccola, la stanza si illuminò grazie ad un ostensorio e che il giorno seguente una croce comparve sul petto della neonata crescendo visibile per sempre. Un altro fatto straordinario accadde qualche giorno dopo, quando uno sciame d'api bianche entrò in casa, soffermandosi per qualche istante sopra il viso della piccola Edvige senza farle alcun male. Tali segni non furono che la genesi d’una vita sorprendente.
Cresimata a quattro anni, a cinque fece autonomamente voto di castità ispirata dal Signore e a undici fece la prima comunione. Non entrò mai in un ordine religioso, benché fosse suo desiderio.
La malattia di sua madre, la cura dei fratellini e i lavori di tessitura, ricamo e cucito che permettevano di aiutare l’economia familiare la tennero occupata in casa con la gioia di vedere tutti sereni e al sicuro.
Vincenzo Peis è originario di Laconi, in cui visse secondo i valori cristiani fino al 1721, anno in cui iniziò il Noviziato presso il Convento dei Cappuccini, acquisendo il nome di Fra Ignazio.
Svolse il suo apostolato a Cagliari per circa quarant’anni, dando prova della sua capacità religiosa comunicativa e carismatica nello svolgimento della sua funzione di questuante.
La richiesta dell’offerta era rivolta a soddisfare le esigenze dei più poveri e bisognosi e la sua dote fu quella di far sempre più partecipe il popolo alla realtà intima e privata del Convento.
La sua figura umile e degna di meritato consenso per le azioni svolte nel corso del suo agire cristiano, è stata fondamentale per la conversione dei peccatori.
La venerazione popolare è derivata anche dalle molteplici virtù del Frate e ai vari miracoli che, secondo i fedeli, egli compì.
Essi risultano dal Summarium del 1868, edito nella Positio super virtutibus, in cui sono state dedicate centoventuno pagine ai miracoli compiuti in vita e ottantasei pagine, invece, destinate ai miracoli post mortem.
“Così mi apparve. Città di roccia Gerusalemme di Sardegna”. Questa fu la prima immagine di Cagliari che lo scrittore Elio Vittorini immortalò su carta. Come la città santa anche Cagliari si arrampica sulla pietra calcarea incastonata sulle zolle di terra dei suoi sette colli. Una di queste alture un luogo sacro. Buoncammino.
Ogni lembo di terra che dal mare del porto si arrampica veloce sul colle “Santo” parla della storia più antica della città.
Una storia talvolta trascurata, ignorata e dimenticata dai più. Ma questo luogo continua a parlare.
L’eco delle preghiere dei numerosi fedeli che accalcano quotidianamente il Convento di Sant’Antonio da Padova, noto ai più come Fra Ignazio, fuoriesce dalle bianche e disadorne pietre che compongono il tempio e si propagano per tutta l’isola. Il culto per gli uomini santi che vissero in quel luogo la regola dei frati francescani cappuccini minori è diffusissimo in tutta la Sardegna da tempi remoti.
I documenti ufficiali testimoniano la cerimonia dell’11 ottobre 1591 officiata dall’Arcivescovo Francesco del Vall, quando vi fu la posa della prima pietra in un terreno sul quale è probabile sorgesse un edificio sacro paleocristiano, secondo quella che era l’usanza del tempo di far sorgere le chiese laddove vi erano stati luoghi dedicati a culti pagani o luoghi di martirio per i primi cristiani.
Non a caso pare vi fosse un tempio pagano alle pendici dell’altura sopra l’anfiteatro romano che si trova dirimpetto alla chiesa.
Ma la presenza dei frati cappuccini minori risale ad alcuni decenni prima, quando di dodici uomini inviati da Papa Sisto V destinati a Sassari, quattro approdarono, si dice a causa di una tempesta, sul litorale cagliaritano. I primi frati furono acquartierati nel convento di san Francesco in Stampace, che ospitava a partire da qualche secolo addietro i frati francescani conventuali.
Questi riservarono per loro un’intera parte della struttura che comprendeva la cappella di San Giorgio. In questo luogo racchiuso oggi tra la via Angioy, il Corso Vittorio Emanuele II e via Mameli, di cui rimangono i ruderi a cielo aperto che a breve, per iniziativa privata vedranno loro restituita dignità, si svolsero le prime opere dei cappuccini in città.
Tra il popolo e l’ordine francescano si suggellò già dal tempo un forte legame.
Leontina Sotgiu ha percorso la sua vicenda umana col coraggio e l’impegno di una donna che non smise mai di lottare contro il male opponendole strenuamente il bene.
Per comprendere i numerosi accadimenti inspiegabili della sua vita, furono al suo fianco Padre Sanna del convento di Santa Maria in Betlem di Sassari e Padre Manzella.
La formazione spirituale ricevuta le consentì dunque di affrontare con coraggio e abbandono alla volontà di Dio i fatti che misero a dura prova il suo fisico e la sua mente.
Leontina Sotgiu è nata a Sassari il 13 gennaio del 1882, in una famiglia numerosa. Suo padre era un maresciallo della guardia di Finanza e sua madre era sarta.
Qualche anno dopo, tutta la famiglia fece l’esperienza dell’emigrazione verso la Francia, senza tuttavia fare fortuna come sperava. Rientrata in Sardegna, Leontina già in età da marito, fu domandata in sposa.
Lei, già terziaria francescana e orientata verso una vita consacrata a Dio, dopo averci riflettuto, rifiutò l’offerta, cosa che suscitò scandalo e riprovazione.
Come poteva, infatti, Leontina permettere che un uomo la distogliesse dalla sua passione, dalla chiamata che fin da bambina le faceva dire per protesta a sua nonna, dopo essere stata ignorata dal prete durante la comunione, che da grande lei si sarebbe comunicata non una ma due, tre e anche quattro volte al giorno?
Un tale carattere e una tale volontà sarebbero state difficilmente allontanate dal progetto di vita che si delineava per lei.
Lucifero fu vescovo di Cagliari e fu onorato dalla Chiesa cattolica per la sua assoluta fedeltà al dogma originario della natura divina di Gesù Cristo.
Nel corso del 321 d.C. si diffuse la dottrina trinitaria, elaborata dal presbitero Ario, secondo cui si negava la consustanzialità, in presupposta subordinazione del Figlio al Padre, che, ingenerato, era l’unico a possedere la natura divina.
L’Arianesimo non negava dunque la Trinità, bensì la natura divina del Figlio in quanto generato dal Padre componendosi perciò di tre persone distinte.
Il Concilio di Nicea (325 d.C.) segnò la svolta cattolica, dichiarando il Simbolo niceno, detto anche Credo niceno, in cui è definitivamente attribuito al Cristo l’homooùsios (stessa sostanza), base dogmatica del Cristianesimo.